Frutti dimenticati antichi e dal sapore genuino, sono prodotti che ormai arrivano raramente sulle nostre tavole. Da qualche tempo però c’è la volontà di riscoprirli.
Alzi la mano chi conosce la pera cocomerina, l’uva trimani, oppure assaggiato la mela della Madonna. Potremmo andare avanti con le giuggiole, le mele pomelle genovesi, la melagrana viola, dal sapore insospettabilmente dolce..Sì sono proprio loro, i “frutti diversamente noti”, per non dire ignoti, a dispetto del sapore genuino, che non trovano spazio negli scaffali della grande distribuzione, forse perchè non sono fashion ed accattivanti come i rivali più sponsorizzati.
Gli alberi da frutto più antichi, selezionati dai nostri avi perchè resistenti alle aggressioni climatiche e parassitarie, negli ultimi decenni vengono snobbati da produttori e grande distribuzione, che preferiscono puntare solo su poche tipologie, più adatte a coltivazioni intensive ma anche sottoposte ad un elevato numero di trattamenti chimici.
Le varietà più rustiche, ridotte ormai al rango di vere Cenerentole, oggi però stanno ritrovando qualche Principe Azzurro disposto a rilanciarle per farle conoscere di nuovo ai consumatori più attenti.
A Bologna, l’Arpae, agenzia regionale della protezione ambiente e la Fondazione Fico, presieduta da Andre Segrè hanno da poco dato vita al Frutteto della biodiversità, un progetto volto a difendere i modelli di conservazione genetica. “Vogliamo tutelare i geni delle piante più longeve – spiega Sergio Guidi, dell’Università operativa biodiversità di Arpae – e recuperare la memoria legata alla loro coltivazione, conservazione ed impiego per tramandarle alle generazioni più giovani. Valutando aspetti quali fioritura ed apertura delle gemme riusciremo anche a capire l’incidenza degli attuali cambiamenti climatici”.
Nel Frutteto trovano ospitalità i gemelli di alcune delle piante più longeve d’Italia, sia da frutto sia forestali, che da secoli hanno resistito ad ogni tipo di avversità senza bisogno di aiuti da parte dell’uomo. Per ottenerli, con una tecnica naturale già usata dai Romani, sono stati prelevati dai patriarchi rami, gemme o altri parti ed innestati su piante selvatiche, in modo da ottenerne un Dna assolutamente identico. Ecco quindi che troveremo una copia del pero più grande d’Italia, che si trova in Basilica a San Severino Lucano ed ha circa trecento anni. O quella di un mastodontico noce che vice ed ancora fruttifica a Poggiodomo, in Umbria, con una circonferenza di oltre cinque metri ed un’età vicina ai 300 anni.
Ma come fare per conoscere meglio questi frutti che maturano davvero sull’albero e non nelle celle frigorifere?
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